Cosimo Carovani: TALES OF DUSK
SU TUTTE LE PIATTAFORME DIGITALI
Cosimo Carovani:
TALES OF DUSK
-
Edward Elgar (1857 – 1934): Serenata per archi in mi minore op. 20
-
#improv. n. 1
-
Cosimo Carovani (B. 1991): due scene di serenata per violoncello concertante ed orchestra d’archi (2021)
-
#improv. n. 2 with J. Dowland (can she excuse my wrongs)
-
Richard Wüerst (1824 –1881): Unterm Balcon Serenade, op. 78
-
Ole Olsen (1850 – 1927): Cello Serenade
-
#improv. n. 3
-
Robert Volkmann (1815 – 1883): Serenade n. 3, op. 69
-
#improv. n. 4
-
Paul Hindemith (1895 – 1963): Trauermusik (versione per violoncello e orchestra d’archi)
-
Robert Schumann (1810 – 1856): da Kinderszenen, Op. 15: No. 7, “Träumerei” (versione per violoncello e orchestra d’archi)
LUOGO DELLA REGISTRAZIONE: Spazio REV Milano
TECNICO DI REGISTRAZIONE, ASSISTENTE MUSICALE, MIXING E MASTERING: STEFANO LIGORATTI
ASSISTENTE DI REGISTRAZIONE E EDITING: MATILDA COLLIARD
COPERTINA: ANTHONY ALTARE di HIERONYMUS BOSCH
FOTO: PAOLO ANDREOLI
LIBRETTO: LUCA CIAMMARUGHI
VIOLONCELLO SOLISTA E CONCERTATORE: COSIMO CAROVANI
ORCHESTRA DA CAMERA “Milano Classica”
ORGANICO:
VIOLINI I: Eleonora Matsuno**, Niccolò Musmeci, Colomba Betti, Roberto Ficili, Tetyana Fedevych
VIOLINI II: Ida di Vita**, Alessandro Vescovi**, Paolo Andreoli, Gemma Longoni
VIOLE: Claudia Brancaccio**, Francesca Turcato**, Artem Dzeganovsky
VIOLONCELLI: Cosimo Carovani **, Fabio Mureddu**, Lucia Molinari
CONTRABBASSO: Paolo Bogno**
Ringraziamenti:
Elisa Scanziani, Aurora Bisanti, Sarah Cross, Giulia Sandoli, NoveVoci di Alberto Sigurtà
Con Tales of Dusk (“Racconti del crepuscolo”), il violoncellista e compositore Cosimo Carovani realizza non solo un concept album incentrato sul tema della serenata al tramontar del sole, ma anche un vero e proprio percorso narrativo, che dal finire del pomeriggio ci porta al momento in cui inizia il sonno – e il sogno. In queste storie si incrociano partiture celebri, riscoperte di lavori dimenticati, nuove creazioni dello stesso Carovani e improvvisazioni che fanno da ponte fra una “stazione” e l’altra del viaggio.
La partenza è sotto il segno della piacevolezza elegante della Serenata in mi minore op. 20 per archi di Edward Elgar (1857-1934), lavoro che il compositore inglese scrisse nella primavera del 1892 (e questa levità primaverile ci sembra di percepirla anche nei suoni). Non bisogna ricercare in questa Serenata né l’erotismo mozartiano né le conflittuali passioni čajkovskiane: lo sguardo è quello di un gentleman di campagna, che con affettuoso e cordiale lirismo dipinge un arioso paesaggio esteriore e interiore. L’Allegro piacevole iniziale si apre su un ritmo puntato cavalleresco, ma siamo lontani dall’incedere drammatico che questa figurazione aveva nelle cavalcate schumanniane: un melodizzare fine ed elegante, appena tinto di malinconia elegiaca, caratterizza questa prima sezione, in cui l’intensità si intensifica poco a poco mantenendo sempre una sorta di calma ampiezza di respiro. Il Larghetto, pagina celebre, rivisita certi stilemi wagneriani e straussiani (ricordiamoci quanto Richard Strauss tenesse in considerazione Elgar!) eliminandone però le tensioni tragiche. Al primo tema dolce, soave, quasi religioso, ne segue un altro più spoglio e riflessivo, vicino armonicamente a certe pagine di Grieg; un nuovo liricissimo tema si presenta poi accompagnato da un lieve mormorio di terzine. Anche l’Allegretto finale rifiuta gli estremismi espressivi, riprendendo tasselli dei movimenti precedenti, sia negli intervalli melodici, sia nei ritmi, con il ritorno dell’incedere cavalleresco iniziale, ancor più sublimato. È proprio questo ritmo ad aprire, quasi senza soluzione di continuità, la prima improvvisazione, col tintinnare di un tamburello. Siamo introdotti in nuovi mondi sonori, coi glissando degli archi sui suoni armonici, sopra i quali il violoncello accenna il suo sensuale canto.
Le due Scene di Serenata per violoncello concertante di Cosimo Carovani ci portano più vicini alla notte, quella notte che, come dice Don Giovanni nell’opera di Mozart su libretto di Da Ponte, «è più chiara del giorno, sembra fatta per girare a zonzo a caccia di ragazze». Qui già iniziamo a percepire un’inquietudine, pur nel chiarore di una fascia sonora luminosa sui cui prendono la parola i pizzicati del violoncello, parenti di quell’archetipo della serenata che è il pizzicato mandolinistico. L’eco lontana del tamburello e del ritmo di marcia notturna si perdono fra suoni solitari che sembrano incarnare l’attesa del momento erotico, fra tremoli leggerissimi e mormorii flautati che richiamano il Waldesrauschen wagneriano, come in un dialogo fra realismo naturalistico e soggettivo sentimento umano. Questo pulviscolo fremente si intensifica per sfociare in una maggiore pienezza armonica; ma l’illusione dura un attimo, e di nuovo i suoni si fanno più eterei, per perdersi poi dolcemente nel silenzio. A un momento più carnale si giunge con la seconda scena, in cui violoncello e archi sembrano ingaggiare una lotta che sfocia in un episodio di festosa danza scozzese; presto torna però l’enigma, il mistero, in un repentino scurirsi del panorama sonoro. Una cadenza piccarda sembra chiudere il brano, ma il violoncello riprende la parola e a poco a poco si ritrova da solo con il suo melos estatico, prima di svanire insieme agli archi verso l’acuto, con un barlume di eccitata follia nel rapido inerpicarsi conclusivo.
La seconda improvvisazione si apre sul suono di una campana tibetana: “è l’ora” della dichiarazione amorosa, e una citazione da un Song di John Dowland (Can she excuse my wrongs) ci ricorda un momento cruciale della fenomenologia del corteggiamento, quella in cui il galante si fa piccolo e umile di fronte all’idealizzata donna amata. È chiaro che in tutto questo percorso è il violoncello a incarnare la voce (tenorile o baritonale) dell’innamorato che canta o che vaga, fra momenti di scoramento e altri di appassionato slancio, sotto alle finestre dell’amata. Il violoncello “obbligato” incarna questo ruolo nell’Unterm Balcon Serenade op. 78 del berlinese Richard Ferdinand Wüerst (1824-1881), allievo di Felix Mendelssohn e autore di diverse opere comiche e sinfonie, nonché direttore della Neue Berliner Musikzeitung. Pubblicata nel 1880, questa Serenata in unico movimento si apre di nuovo su un ritmo puntato, stavolta di siciliana, con i pizzicati degli archi ad accompagnare una melopea struggente che il violoncello deve cantare “con anima”. Gli archi con sordina riprendono, stavolta con l’arco, il tema, e poi si profila un nuovo motivo più luminoso nel quale il violoncello si limita a un controcanto su note lunghe. Il dialogo fra archi e solista si fa più intenso nell’episodio successivo, in cui il violoncellista appare chiaramente come il galante che implora sotto il balcone. Progressivamente i suoni svaniscono, con serenità ma anche qualche dettaglio armonico ardito, che pare incarnare i sussulti del cuore.
Più rustica e baldanzosa è la Serenata per violoncello e archi del norvegese Ole Olsen (1850-1927), che ci porta nel folklore delle città più settentrionali del mondo (la contea di Finnmark). Enfant prodige, andatosene poi dalle sue terre per studiare a Lipsia (con Oskar Paul e Carl Reinecke), Olsen fu un musicista prolifico e poliedrico fortemente attratto dalla musica di Wagner, ma anche dal Joik, il canto tradizionale del popolo autoctono norvegese Sami. Si palesa in questo caso un folklore gaudente, con accenti ben scanditi sul tempo forte di un 3/4, ma non privo di complessità nella scrittura violoncellistica (uso di doppie e triple corde), di umoristici silenzi e saporiti dettagli armonici. Ancora una volta, secondo lo stilema della serenata, il brano si chiude morbidamente, su due accordi arpeggiati in pizzicato del solista.
Al gioco festoso segue, nella terza improvvisazione, l’introspezione di un dialogo polifonico, improvvisamente rotta da un gesto violento, come in un improvviso smarrimento. Ed è proprio in un clima di meditativa introspezione che ritroviamo l’amato, immaginandocelo con la testa fra le mani, nella Serenata n. 3 op. 69 di Robert Volkmann (1815-1883). Questo allievo di Carl Becker a Lipsia, incoraggiato anche da Robert Schumann, ottenne una certa celebrità fra gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento, meritandosi una cattedra di composizione all’Accademia Nazionale di Musica di Budapest, città in cui si era trasferito nel 1841. La struttura di questa Serenata è molto più articolata del consueto, e rapsodica al tempo stesso. Si apre con un monologo del violoncello solo (Larghetto non troppo), sorta di canto solitario modaleggiante in cui una quarta aumentata (re-sol#) turba l’ordine e la calma. L’ingresso degli archi, quasi innodico, segna il passaggio alla tonalità maggiore, ma il canto solingo torna poi a un dolente re minore. Un Andante espressivo, nuovamente in re maggiore, segna un momento di apertura luminosità, a cui segue la prima di una serie di cadenze del solista. Subitaneo irrompe un nuovo episodio, Prestissimo, in cui il solista si limita a poche note taglienti sul tempo debole; è un fuoco di paglia che sfocia in un Andante affettuoso, seguito da una nuova cadenza che conduce a un più danzante Allegro non tanto. Poco a poco, nei motivi ritmici costellati da rapide terzine, si affaccia il folklore magiaro, con i suoi controtempi e il fuoco dei motivi popolari, tanto amati anche da Brahms, che di Volkmann fu amico. Un episodio festoso sembrerebbe chiudere allegramente l’opera, che invece ciclicamente termina con l’iniziale canto introspettivo del solista, in un immateriale ppp.
Nella quarta improvvisazione, al consueto stilema del pizzicato si aggiunge anche la voce, che intesse melismi, quasi alla maniera orientale, sulle note della ninna-nanna toscana, Ninna-nanna ai sette venti. Potrebbe stavolta trattarsi di un lamento funebre che prelude alla Trauermusik di Paul Hindemith (1895-1963), proposta nella versione per violoncello e archi invece che in quella usuale con la viola solista. La sera è ormai calata, e le ombre ci ricordano che Eros è inscindibile da Thanatos. Ma l’amore che ritroviamo in questa musica funebre di Hindemith si declina sotto una luce nuova: non è più quello del galante sotto alla finestra dell’amata, ma è il profondo sentimento di devozione per un sovrano appena defunto (Giorgio V d’Inghilterra), che con il compositore condivideva la passione per la viola, da entrambi suonata. Hindemith scrisse questo breve ma denso lavoro il 21 gennaio 1936, direttamente sotto l’impressione della morte del re. Rispetto alla fase espressionista della sua produzione, beffarda e sarcastica, qui il compositore tedesco sembra volgersi verso una vena più ascetica e meditativa, che aveva avuto i suoi prodromi già in alcune pagine della Sancta Susanna e soprattutto nel ciclo di Lieder Das Marienleben (La vita di Maria), su testi di Rilke. Articolato in quattro brevi sezioni, il lavoro si apre con un Langsam dalle armonie tormentate e dal tessuto polifonico complesso, a quattro parti. Il violoncello fa il suo ingresso come una voce “parlante”, rendendo via via più accesa e fremente la trenodia. A un episodio fugace più lieve e sereno (Ruhig bewegt) fa seguito una nuova irruzione drammatica, nella quale la voce del solista sembra spezzarsi in singhiozzi; il finale, ascetico e omofonico, è un Corale Sehr Langsam in cui si eleva un sentimento di liberazione dai tormenti terreni.
Se la partitura di Hindemith ci porta all’homo doloris e alla notte dell’anima, con il Träumerei (Sogno) di Robert Schumann (1810-1856) si spalanca la dimensione onirica, in un sonno che è paradossalmente risveglio: in questa pagina dalle Kinderszenen op. 15, il mondo dall’altra parte dello specchio, a cui bambini e folli (e sognatori) hanno accesso privilegiato, scaccia le ombre della notte e della morte, per farci illudere che un mondo di perfetto ed eterno amore sia possibile.
Luca Ciammarughi